Perdite consistenti, consecutive e reiterate nel tempo in contrasto con il volume d’affari dichiarati sono rappresentative di una gestione antieconomica dell’attività e costituiscono elementi indiziari validi a legittimare l’accertamento analitico-induttivo di ricavi in nero, spostando sul contribuente l’onere di prova contraria (Corte di Cassazione – Ordinanza 16 marzo 2021, n. 7382) La controversia trae origine dall’accertamento analitico-induttivo adottato dall’Agenzia delle Entrate per la ricostruzione del reddito d’impresa e la contestazione di maggior reddito, in considerazione della gestione antieconomica dell’attività rappresentata da perdite consistenti, consecutive e reiterate nel tempo in contrasto con il volume degli affari dichiarato. La Corte di Cassazione ha riformato la decisione dei giudici tributari, accogliendo il ricorso del Fisco. Nel caso in esame, la Suprema Corte evidenzia che l’accertamento risulta basato anche sul comportamento antieconomico della contribuente, che sembrava lavorasse in perdita, pur percependo ricavi di una certa entità, integrando così le presunzioni gravi, precise e concordanti che legittimano l’applicazione del metodo analitico-induttivo per la rettifica del reddito d’impresa. Con la decisione impugnata, i giudici tributari hanno fatto leva sulla sproporzione esistente fra il reddito rideterminato e il giro di affari dichiarato dalla contribuente per motivare l’illegittimità dell’avviso di accertamento, il quale invece, essendo basato sull’inattendibilità delle scritture contabili e l’antieconomicità della gestione imprenditoriale protrattasi per diversi anni, imponeva un onere di prova contraria in capo al contribuente.
Il ricorso del contribuente è stato accolto dai giudici tributi sul rilievo della spoporzione fra il reddito rideterminato e il giro d’affari. In relazione all’antieconomicità dell’attività, secondo i giudici, assumeva rilievo la forte riduzione del giro d’affari nell’anno accertato rispetto all’anno precedente.
L’Ufficio ha impugnato la decisione riaffermando che in sede di verifica contabile erano emersi vari elementi di “sospetto” circa l’attendibilità delle scritture contabili, messe in luce nella motivazione dell’avviso di accertamento, riguardo alle perdite consistenti, consecutive e reiterate nel tempo in contrasto con il volume d’affari dichiarati. Ha eccepito, altresì, sul piano dell’onere probatorio, l’assenza di una plausibile giustificazione in merito alla prolungata e persistente “antieconomicità della gestione”, che costituisce un indizio sufficientemente grave dei ricavi in nero, da giustificare l’applicazione del metodo analitico-induttivo.
La Corte Suprema ha affermato che in tema di accertamento induttivo dei redditi d’impresa, sulla base del controllo delle scritture e delle registrazioni contabili, l’atto di rettifica, qualora l’Ufficio abbia sufficientemente motivato, specificando gli indici di inattendibilità dei dati relativi ad alcune poste di bilancio e dimostrando la loro astratta idoneità a rappresentare una capacità contributiva non dichiarata, è assistito da presunzione di legittimità circa l’operato degli accertatori, nel senso che null’altro l’ufficio è tenuto a provare, se non quanto emerge dal procedimento deduttivo fondato sulle risultanze esposte, mentre grava sul contribuente l’onere di dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate, anche in relazione alla contestata antieconomicità delle stesse.
Egualmente, in presenza di contabilità formalmente regolare ma intrinsecamente inattendibile per l’antieconomicità del comportamento del contribuente, l’Ufficio può desumere in via induttiva, sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, il reddito del contribuente utilizzando le incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, incombendo su quest’ultimo l’onere di fornire la prova contraria e dimostrare la correttezza delle proprie dichiarazioni.
Pertanto, una volta contestata dall’Erario l’antieconomicità di un comportamento del contribuente, poiché assolutamente contrario ai canoni dell’economia, incombeva sul medesimo l’onere di fornire, al riguardo, le necessarie spiegazioni, essendo – in difetto – pienamente legittimo il ricorso all’accertamento induttivo da parte del Fisco.