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Conversione del rapporto a termine e superamento della regola sinallagmatica della corrispettività

4 Febbraio 2021 by Teleconsul Editore S.p.A.

Nella situazione in cui il lavoratore, dopo avere richiesto l’accertamento giudiziale della invalidità di plurimi contratti a termine ed ottenuto l’ordine giudiziale di conversione del rapporto, offra al datore di lavoro la sua prestazione, senza essere riammesso in servizio, il datore di lavoro dovrà sopportare il peso economico delle retribuzioni, pur senza ricevere la prestazione lavorativa corrispettiva, a decorrere dalla messa in mora, nonché della maturazione del TFR, in relazione a quanto dovuto per le retribuzioni anno per anno (Corte di Cassazione, ordinanza 27 gennaio 2021, n. 1758)

Un Tribunale territoriale aveva rigettato l’opposizione di un lavoratore avverso lo stato passivo del Fallimento della società presso cui il medesimo aveva prestato servizio, essendo stato escluso il credito da lui insinuato a titolo di TFR. Nello specifico, il lavoratore aveva ottenuto l’accertamento della nullità del termine apposto ad una serie di contratti di lavoro alle dipendenze della società poi fallita e la conversione del rapporto in uno a tempo indeterminato, con conseguente risarcimento omnicomprensivo (parametrato sulla retribuzione mensile). Il Tribunale, pertanto, aveva escluso la maturazione, in favore del predetto, per i periodi “non lavorati” di un diritto al TFR, perché strutturalmente connotato dalla “afferenza” alla retribuzione-base.
Avverso la sentenza ricorre così in Cassazione il lavoratore, dolendosi dell’erroneo assunto della natura risarcitoria della condanna pecuniaria, liquidata in base alla retribuzione soltanto in funzione parametrica del quantum.
Per la Suprema Corte il ricorso è fondato.
In primis, il Giudice di merito ha correttamente qualificato la condanna pecuniaria comminata, insieme con la conversione del rapporto di lavoro, come di natura risarcitoria, in coerenza con il consolidato indirizzo giurisprudenziale, secondo cui, nel regime previgente la disciplina di cui all’art. 32, co, 5, L. n. 183/2010, in caso di trasformazione in unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato di più contratti a termine succedutisi tra le stesse parti, per effetto dell’illegittima apposizione o comunque dell’elusione di disposizioni imperative (L. n. 230/1962), non sussiste, per gli intervalli “non lavorati” tra l’uno e l’altro rapporto, il diritto del lavoratore alla retribuzione, al corrispondente rateo di tredicesima mensilità ed al compenso per ferie non godute.
In secondo luogo, il dipendente che cessi l’esecuzione delle prestazioni alla scadenza del termine stabilito, può ottenere il risarcimento del danno subito a causa dell’impossibilità della prestazione derivante dall’ingiustificato rifiuto del datore di lavoro di riceverla (in linea generale in misura corrispondente a quella della retribuzione), soltanto qualora provveda a costituire in mora il datore di lavoro (art. 1217 c.c.).
Infine, il trattamento di fine rapporto ha carattere retributivo e sinallagmatico e costituisce istituto di retribuzione differita (ex multis, Corte di Cassazione, sentenza 8 gennaio 2016, n. 164, in ipotesi di trasferimento d’azienda, con riguardo agli obblighi relativi al cedente e al cessionario), commisurato nell’ammontare al quantum maturato, anno per anno, a titolo di retribuzione.
Tanto premesso, l’accertamento giudiziale dell’invalidità del contratto a termine per violazione di norme imperative e la conseguente conversione in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, nell’ipotesi in cui non sia possibile ripristinare il rapporto così convertito, per fatto imputabile al datore di lavoro, comporta il suo obbligo di corrispondere le retribuzioni al lavoratore dalla messa in mora, decorrente dall’offerta della prestazione lavorativa. Ciò, in virtù dell’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme generali in tema di contratti a prestazioni corrispettive, che induce al superamento della regola sinallagmatica della corrispettività (Corte di Cassazione, sentenza 10 settembre 2018, n. 21947).
In altri termini, nella situazione in cui il lavoratore, dopo avere richiesto l’accertamento giudiziale della invalidità del contratto in violazione di norme imperative ed ottenuto l’ordine giudiziale di ripristino del rapporto, offra al datore di lavoro la sua prestazione, senza essere riammesso in servizio, deve evitarsi che egli subisca le ulteriori conseguenze sfavorevoli derivanti dalla condotta omissiva del datore di lavoro rispetto alla esecuzione dell’ordine giudiziale. Il rifiuto della prestazione lavorativa offerta, infatti, impedisce gli effetti giuridici che derivano dalla continuazione del rapporto dichiarato dal giudice, nonché la stessa effettività della pronuncia giudiziale.
In tale ipotesi, quindi, il datore di lavoro dovrà sopportare il peso economico delle retribuzioni, pur senza ricevere la prestazione lavorativa corrispettiva, a decorrere dalla messa in mora, nonché della maturazione del TFR, in relazione a quanto dovuto per retribuzioni anno per anno.

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