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Clausole di disponibilità alla prestazione nei giorni festivi e domenicali, criteri di ammissibilità

2 Aprile 2021 by Teleconsul Editore S.p.A.

In tema di interpretazione degli atti negoziali, il principio “in claris non fit interpretatio” postula che, laddove la formulazione testuale sia talmente chiara da rivelare con univocità la volontà dei contraenti, deve intedersi preclusa la ricerca di una volontà diversa. Ciò premesso, una clausola di rinuncia all’astensione dalla prestazione lavorativa nelle giornate di festività infrasettimanale può essere validamente inserita nel contratto individuale di lavoro, fermo restando che il potere datoriale di richiedere la prestazione sia esercitato nel rispetto dei principi di buona fede e correttezza (Corte di Cassazione, ordinanza 31 marzo 2021, n. 8958)

La vicenda giudiziaria nasce dalla domanda proposta da alcune lavoratrici nei confronti della Società datoriale, per l’annullamento delle sanzioni disciplinari conservative a loro applicate per essersi astenute dal lavoro durante alcune festività nazionali infrasettimanali. Tanto la Corte di appello quanto il Giudice di prime cure, avevano ritenuto

pacifico l’inserimento, nei contratti individuali di lavoro stipulati dalle lavoratrici, di clausole di disponibilità alla prestazione di lavoro nei giorni festivi e domenicali, prospettandone però la nullità in considerazione della loro indeterminatezza e della mancanza della previsione di un corrispettivo, della posizione di debolezza rivestita dalla parte nel momento della sottoscrizione (ossia, alla data di assunzione o di trasformazione del rapporto a tempo indeterminato), della piena quanto unilaterale discrezionalità del datore di lavoro.
Avverso la sentenza ricorre così in Cassazione la Società, lamentando violazione e falsa applicazione della legge, nonché dei canoni normativi di interpretazione ermeneutica.
Per la Suprema Corte il ricorso merita accoglimento.
In via preliminare, le valutazioni del giudice di merito in ordine all’interpretazione degli atti negoziali soggiacciono, nel giudizio di cassazione, ad un sindacato limitato alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale ed al controllo della sussistenza di una motivazione logica e coerente (ex plurimis, Corte di Cassazione, sentenza n. 12360/2014).
Orbene, l’esegesi del testo contrattuale compiuta dalla Corte di merito, espunge dalla ricostruzione del significato obiettivo dell’accordo il criterio dell’interpretazione letterale (art. 1362, co. 1, c.c.), violando, inoltre, il principio di conservazione del contratto (art. 1367, c.c.).
Rispetto all’esigenza primaria di ricostruire la comune volontà delle parti, infatti, il tradizionale principio “in claris non fit interpretatio” postula che la formulazione testuale sia talmente chiara da precludere la ricerca di una volontà diversa. In altri termini, l’indicazione normativa (art. 1362, c.c.) che prescrive all’interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non svaluta l’elemento letterale del contratto ma, al contrario, intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, riveli con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile (Corte di Cassazione, sentenza n. 21576/2019).
Il significato letterale della clausola in questione è univoco e diretto ad attribuire al datore di lavoro, che ha acquisito il consenso del lavoratore, il potere di richiedere la prestazione lavorativa nei giorni festivi (e domenicali), nel rispetto della normativa dettata in materia di riposo settimanale. L’interpretazione è coerente con la struttura del rapporto di lavoro subordinato, caratterizzato da un bilanciamento tra l’eterodirezione dell’attività (nel caso di specie, il potere di articolare l’orario di lavoro dei singoli dipendenti per il perseguimento degli obiettivi dell’attività d’impresa), e un apparato protettivo, finalizzato ad evitare che l’iniziativa economica privata pregiudichi la sicurezza, la libertà e la dignità umana (nel caso di specie, i limiti di durata della giornata lavorativa previsti dalla legge e dalla contrattazione collettiva e le disposizioni in materia di riposi).
In materia di orario di lavoro, poi, non possono estendersi al contratto a tempo pieno i limiti posti allo ius variandi nei contratti part time, nei quali la programmabilità del tempo libero rappresenta carattere essenziale che giustifica l’immodificabilità dell’orario da parte datoriale per garantire la esplicazione di ulteriore attività lavorativa o un diverso impiego del tempo. Nel rapporto a tempo indeterminato l’impiego del tempo libero da parte del lavoratore non può ricevere la stessa tutela perché ciò si tradurrebbe nella negazione del diritto dell’imprenditore di organizzare l’attività produttiva, diritto che può soffrire limiti solo in dipendenza di pattuizioni individuali o fonti collettive che lo vincolino o lo condizionino a particolari procedure (da ultimo, Corte di Cassazione, sentenza n. 9134/2000).
Peraltro, a differenza delle ferie e del riposo settimanale, le festività infrasettimanali non sono tutelate dalla Costituzione. I lavoratori hanno diritto ad astenersi dal lavoro conservando la retribuzione piena e, in aggiunta, una retribuzione maggiorata per il lavoro eventualmente prestato in tali ricorrenze (art. 5, L. n. 260/1949), tuttavia la rinuncia al diritto all’astensione dalla prestazione nelle predette giornate (art. 2, L. 260/1949) può essere validamente inserita come clausola del contratto individuale di lavoro.
Il diritto del lavoratore ad astenersi dalla prestazione durante le festività infrasettimanali, dunque, è diritto disponibile e sono validi gli accordi individuali, intercorsi tra lavoratore e datore di lavoro, mentre il potere del datore di lavoro di richiedere la prestazione lavorativa nei giorni festivi va esercitato nel rispetto dei principi di buona fede e correttezza.

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